Sto finalmente lavorando alla versione estesa di questa storia. Vi lascio l'inizio come teaser
Maledico il diavolo e tutte le sue orride creature per avermi teso questo infernale tranello. Mai e poi mai nella mia vita, per nulla al mondo, avrei desiderato ritrovarmi in questa posizione e ho la netta impressione che non potrò perdonarmi facilmente la leggerezza di aver accettato questa sfida per me improba. A mia parziale discolpa, per così dire, la gamma delle mie opzioni era piuttosto ristretta. Ora, con questa benda ben serrata sugli occhi mi è preclusa qualsiasi visione, i miei polsi sono assicurati saldamente ai braccioli della sedia, le gambe sono distese in avanti, le ginocchia costrette l’una contro l’altra da un corda e le caviglie legate insieme ed adagiate su di un morbido cuscino. Testo le mie catene con cautela, per paura di conoscerne l’atroce sentenza. Ed in effetti, per quanto io possa provare a muovermi, il mio corpo rimane ancorato al punto di partenza. Che idiota che sono! Ci sono davvero caduta con tutte le scarpe. E a proposito di scarpe, ultimo fiero baluardo a mia difesa, non indossando calzini, ecco che se ne vanno, ciascuna sfilata con un unico e deciso movimento. Ruoto per alcuni secondi le dita dei piedi nel vuoto, lascio che l’aria fresca penetri gli spazi tra di esse. Mi viene già da rabbrividire al solo pensiero di ciò che mi aspetta. I miei piedi, dolce nettare, non hanno più protezione e saranno ora alla sua mercé, completamente ed irrimediabilmente esposti ed indifesi, per i prossimi 15 minuti. Nella mia posizione, posso solo augurarmi che lui mantenga ciò che ha promesso, ovvero di mostrarsi magnanimo ed indulgente in caso di necessità. Lo spero con tutto il mio spirito, o rischio che questa rappresenti l’ultima, seppur di una lunga trafila, follia della mia vita. 15 minuti suonano come un’eternità, un buio tunnel di cui non si riesce ad intuirne l’uscita.
Mentre mi arrovello il gulliver, come direbbe uno dei miei personaggi cinematografici preferiti, con questi pensieri, trincerata ed in assetto da battaglia dietro la barricata della mia razionalità, una improvvisa sensazione di un qualcosa che scorre tra l’alluce e il secondo dito del mio piede destro prima, e del sinistro subito dopo, mi costringere a fare nuovamente i conti con la cruda realtà della carne. Qualsiasi cosa sia, basta questo a generare un senso di fastidio insopprimibile, già ben al di là dei miei pur modesti, lo ammetto, limiti di sopportazione. Cerco di controllare le mie reazioni senza successo, lasciandomi sfuggire, con una punta di imbarazzo, una risata inquieta.
“Che stai facendo?!” gli chiedo di scatto. Il mio cervello, disperato e privato dell'ausilio della vista, annaspa nel vano tentativo di recuperare il controllo sulla situazione. I miei nervi, tuttavia, navigano già, assai pericolosamente, a fior di pelle.
“Cos’è? già ti lamenti? Ti sto solo legando gli alluci” la voce di lui risuona beffarda, andando dritta a bersaglio, mentre lui prosegue nella sua operazione, senza sbavature di sorta.
“Hai finito per la miseria?!” l’ansia mi avviluppa dalle caviglie in su, avvolgente come le spire di un serpente alle porte della città di Sodoma.
“Ma se non abbiamo neanche iniziato...”
Anche se non posso vederlo, so che sul suo viso è dipinto un adorabile ghigno di soddisfazione e, se potessi, bacerei quel ghigno ora.
“Bene, faccio partire il cronometro! Però ti prego, non distruggermi la sedia” una risata sardonica e compiaciuta spezza per un attimo la meticolosità dei suoi gesti, restituendo per un istante una pallida umanità alla freddezza, sebbene solo apparente, del suo lavoro.
“Fai pure del tuo peggio” controbatto, cercando di non chinare il capo di fronte alla sua provocazione, mossa da un orgoglio che farei bene a mettere da parte quanto prima.
“Come preferisci” taglia corto lui questa volta...
Maledico il diavolo e tutte le sue orride creature per avermi teso questo infernale tranello. Mai e poi mai nella mia vita, per nulla al mondo, avrei desiderato ritrovarmi in questa posizione e ho la netta impressione che non potrò perdonarmi facilmente la leggerezza di aver accettato questa sfida per me improba. A mia parziale discolpa, per così dire, la gamma delle mie opzioni era piuttosto ristretta. Ora, con questa benda ben serrata sugli occhi mi è preclusa qualsiasi visione, i miei polsi sono assicurati saldamente ai braccioli della sedia, le gambe sono distese in avanti, le ginocchia costrette l’una contro l’altra da un corda e le caviglie legate insieme ed adagiate su di un morbido cuscino. Testo le mie catene con cautela, per paura di conoscerne l’atroce sentenza. Ed in effetti, per quanto io possa provare a muovermi, il mio corpo rimane ancorato al punto di partenza. Che idiota che sono! Ci sono davvero caduta con tutte le scarpe. E a proposito di scarpe, ultimo fiero baluardo a mia difesa, non indossando calzini, ecco che se ne vanno, ciascuna sfilata con un unico e deciso movimento. Ruoto per alcuni secondi le dita dei piedi nel vuoto, lascio che l’aria fresca penetri gli spazi tra di esse. Mi viene già da rabbrividire al solo pensiero di ciò che mi aspetta. I miei piedi, dolce nettare, non hanno più protezione e saranno ora alla sua mercé, completamente ed irrimediabilmente esposti ed indifesi, per i prossimi 15 minuti. Nella mia posizione, posso solo augurarmi che lui mantenga ciò che ha promesso, ovvero di mostrarsi magnanimo ed indulgente in caso di necessità. Lo spero con tutto il mio spirito, o rischio che questa rappresenti l’ultima, seppur di una lunga trafila, follia della mia vita. 15 minuti suonano come un’eternità, un buio tunnel di cui non si riesce ad intuirne l’uscita.
Mentre mi arrovello il gulliver, come direbbe uno dei miei personaggi cinematografici preferiti, con questi pensieri, trincerata ed in assetto da battaglia dietro la barricata della mia razionalità, una improvvisa sensazione di un qualcosa che scorre tra l’alluce e il secondo dito del mio piede destro prima, e del sinistro subito dopo, mi costringere a fare nuovamente i conti con la cruda realtà della carne. Qualsiasi cosa sia, basta questo a generare un senso di fastidio insopprimibile, già ben al di là dei miei pur modesti, lo ammetto, limiti di sopportazione. Cerco di controllare le mie reazioni senza successo, lasciandomi sfuggire, con una punta di imbarazzo, una risata inquieta.
“Che stai facendo?!” gli chiedo di scatto. Il mio cervello, disperato e privato dell'ausilio della vista, annaspa nel vano tentativo di recuperare il controllo sulla situazione. I miei nervi, tuttavia, navigano già, assai pericolosamente, a fior di pelle.
“Cos’è? già ti lamenti? Ti sto solo legando gli alluci” la voce di lui risuona beffarda, andando dritta a bersaglio, mentre lui prosegue nella sua operazione, senza sbavature di sorta.
“Hai finito per la miseria?!” l’ansia mi avviluppa dalle caviglie in su, avvolgente come le spire di un serpente alle porte della città di Sodoma.
“Ma se non abbiamo neanche iniziato...”
Anche se non posso vederlo, so che sul suo viso è dipinto un adorabile ghigno di soddisfazione e, se potessi, bacerei quel ghigno ora.
“Bene, faccio partire il cronometro! Però ti prego, non distruggermi la sedia” una risata sardonica e compiaciuta spezza per un attimo la meticolosità dei suoi gesti, restituendo per un istante una pallida umanità alla freddezza, sebbene solo apparente, del suo lavoro.
“Fai pure del tuo peggio” controbatto, cercando di non chinare il capo di fronte alla sua provocazione, mossa da un orgoglio che farei bene a mettere da parte quanto prima.
“Come preferisci” taglia corto lui questa volta...
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